ROBERTO DAL SENO - CHEF CONSULTANT - LOGO WHITE

Cucina Italiana in America nel nuovo millennio (ero la…!)

L’evoluzione della cucina Italiana in America (1980/2000)

 L’obiettivo che si propone questo articolo è di trasmettere la filosofia, lo stile, la personalità e l’identità della vera e attuale cucina italiana quella, in altre parole, che si presenta nei buoni ristoranti del mio Paese. La cucina fatta dai professionisti, da chi è attento ai particolari, da chi vuole non solo vendere piatti, ma chi s’impegna quotidianamente nella scelta dei prodotti e nella composizione necessaria a fornire piccoli capolavori che facciano felice il commensale dandogli emozioni piuttosto che nutrirne il corpo.

Ce ne sono molti in Italia di questi professionisti e ne ho conosciuti molti durante la mia carriera, certamente non sono quelli che appaiono nelle trasmissioni televisive e neppure quelli che appaiono sulle riviste patinate. Non perché quest’ultimi non siano meritevoli di esserci, ma perché probabilmente conoscendo la fatica che si fa a mantenere uno standard qualitativo elevato nel proprio ristorante, non ci sarebbe davvero il tempo per fare dell’altro.

Questo libro è dedicato a chi, come me, ha passato la vita a perfezionare la propria tecnica culinaria mettendo al primo posto il proprio lavoro e la propria preparazione professionale trascurando la famiglia, gli affetti e gli svaghi ed è pensato e finalizzato al mercato americano perché dalle mie trasferte in questo Paese mi è parso evidente che ci sono alcuni grossi errori sostanziali nella conoscenza collettiva della nostra cultura gastronomica che amerei nel mio piccolo mitigare.

Questa volontà di trasmettere ai miei amici americani, che adoro per la loro capacità di farti sentire a casa, la passione tutta italiana di condividere l’ottimo cibo, di gioire del convivio e del disquisire sul vino e nel dividere i momenti più importanti della vita con le gambe sotto il tavolo è la chiave che ha scaturito la determinazione per confezionare questo libro.

La voglia di fare chiarezza e la speranza che questo messaggio possa raggiungere è forte e che sia un successo o meno, quello che importa è che io abbia contribuito in qualche modo a comunicare come stanno le cose!!!

E’ opportuno, però, premettere che è oggettivamente difficile, per non dire forse impossibile pretendere di incasellare e circoscrivere la cucina italiana in un definito e definitivo modo di fare e di essere.

I motivi sono svariati e si possono già intuire vedendo come si è sviluppata e definita nei secoli la cucina regionale, che altro non è, che l’espressione produttiva di un variegato territorio che varia per altitudine, clima e cultura.

Esiste poi la questione della cucina “mediterranea” per la quale, è doveroso da parte mia, spendere qualche parola sulle origini per meglio comprenderne l’influenza che essa esercita nel modo italiano di fare cucina.

Le origini della cucina “Mediterranea” e le sue implicazioni attuali

 La cucina mediterranea, da un punto di vista culturale, si può definire, in breve, come la fusione di diversi modi di cucinare e di combinare prodotti alimentari specifici già presenti nei popoli e nelle etnie che abitavano le coste del bacino del mediterraneo e che attraverso gli scambi commerciali via mare, o dominazioni militari, hanno contaminato le suddette identità, evolute poi, nell’arco dei secoli, in nuove culture gastronomiche.

Aldilà dei continui conflitti militari e politici e dello spostamento continuo dei popoli, che si sono susseguite nella storia, proprio attraverso questo millenario commercio via mare che le principali culture costiere hanno potuto confrontarsi, scambiarsi informazioni e concludere affari.

Ecco spiegati i motivi, per esempio, delle contaminazioni arabe nella cucina siciliana, della somiglianza di tutte le zuppe e minestre di legumi presenti nelle varie latitudini Italiane, ma anche in Turchia e in Grecia,    (i legumi sono sempre stati motivo di grossi scambi commerciali per via della loro propensione ad essere seccati e trasportati senza problemi di conservazione).

Un altro scambio molto diffuso sono state le zuppe di pesce con un esempio su tutti: la “buridda” ligure, che si trova con lo stesso nome anche in Sardegna; sempre nell’isola è ben noto, come piatto regionale, la “fregola” che non è altro che una sorta di cous-cous.

Altra curiosità è rappresentata dall’arte di salare o di affumicare il pesce, che nasce sicuramente da un’esigenza nutrizionale, economica e di commercio, naturalmente acciughe, aringhe, merluzzo o salmone salati o affumicati sono oggi una pietra miliare della cucina mediterranea e ne godiamo come specialità alimentare, ma hanno avuto origini dettate dalle necessità di scambiare prodotti piuttosto che dalla ricerca del gusto.

Un altro esempio di come un prodotto gastronomico ha condizionato la cultura culinaria di un paese è rappresentato dal merluzzo disidratato, chiamato in questa sua forma “stoccafisso” che deve le sue migliori ricette e interpretazioni, non alla cucina scandinava dalla quale deriva, ma a due zone molto lontane fra loro dal luogo di pesca e lavorazione di questo pesce, ossia la “cucina Ligure” e la “Cucina Basca” (regione nord-ovest Spagna).

Sicuramente un’altra contaminazione nasce con l’importazione delle spezie, che attraverso la via della “seta” prima, e con l’apertura di nuovi canali di comunicazione in seguito, hanno consentito l’espansione di questi insaporitori, che dall’oriente in poi, passando per le culture Caucasiche e Mediorientali, hanno lentamente ma, costantemente influenzato il modo di fare cucina.

L’elenco potrebbe continuare con numerosi esempi di come degli stessi prodotti fossero finiti nelle pentole di paesi lontani fra loro, generando nomi nuovi ma restando uguali o simili nella ricetta, e diventandone orgoglio e patrimonio culturale e gastronomico dei rispettivi paesi.

In secondo luogo ci sono motivazioni d’ordine pratico, poiché i popoli di queste aree hanno sempre goduto di un clima mite che favoriva la crescita lussureggiante della vegetazione, però dovendo fare i conti con gli effetti limitanti degli entroterra, che rendevano difficile, salvo alcune zone, l’allevamento intensivo dei bovini.

Scarseggiando latte e burro, ed essendo l’olivo pianta facilmente produttiva in questo contesto geo-fisico, ecco lo sviluppo di un’alimentazione basata principalmente sull’olio d’oliva.

Per contro, l’agnello o il capretto, i conigli e le faraone, che sono animali allevabili anche in zone montagnose sono sempre stati preferiti nelle ricette di questa cucina.

Infine, il mar del mediterraneo che con i suoi fondali molto sconnessi e profondi, con una temperatura media costante superiore di quella di un oceano, ha evoluto nei millenni una vastissima varietà di pesce dalle caratteristiche organolettiche uniche e straordinarie, dando così un impulso notevole alla gastronomia ittica e al suo consumo, oltre ad un evidente indotto economico.

Tuttavia sarebbe erroneo pensare che la cosiddetta cucina “mediterranea” rappresenti la totalità delle espressioni gastronomiche del Bel paese. Come accennato all’inizio, la cucina regionale ha un ruolo molto importante nella cultura nazionale e lo stacco maggiore si nota nelle specialità delle zone montane delle catene delle Alpi, delle Dolomiti e dell’Appennini, che ha una connotazione molto diversa rispetto ai canoni classici conosciuti. Selvaggina, erbe selvatiche e aromatiche, latte di malga o d’alpeggio con suoi classici derivati, funghi, tuberi e tartufi, farine e cereali integrali sono alcuni prodotti d’estrazione non mediterranea. E da qui come potete immaginare nascono molteplici modi di fare cucina che il tempo, i popoli e le culture locali hanno codificato e lasciato come patrimonio gastronomico.

 

Vorrei terminare questo capitolo con una considerazione personale. È innegabile che la cucina italiana nel senso stretto del termine, è composta dalle ricette codificate regionali che comprendono pure la cucina delle coste, ossia quella mediterranea. È inconfutabile che tali ricette nascono dalla reperibilità di prodotti di qualità che ne hanno dettato fin da subito i procedimenti e dal senso pratico dei nostri antenati. Tuttavia, oggi non si può ignorare tutto il movimento e l’innovazione che il mondo della ristorazione crea diffondendosi fino alle cucine di casa nostra. È dai tavoli dei ristoranti che una persona fissa nella memoria un sapore, un abbinamento, una cottura e che probabilmente cercherà di riprodurre a casa per amici e parenti.

Ecco ed è qui il punto! La chiave di lettura! La differenza!

Quando un ristoratore propone uno stile di lavoro basato sulla tradizione sia in Italia, ma specialmente all’estero, bisogna stare attenti che si sta giocando con la cultura di un popolo ed è quella che si sta rappresentando tramite un depositario, quando invece si propone uno stile di lavoro personalizzato e creativo, che potrà essere pure d’ispirazione italiana o francese, (se sì ci trova all’estero l’accostamento è fisiologico) ma l’eventuale successo sarà sempre decretato alla capacità e al talento del suo chef o all’immagine del locale e senza, in qualche modo, influenzare lo status di una gastronomia nazionale.

L’evoluzione gastronomica Italiana degli ultimi 30 anni

 Le destinazioni turistiche più ambite offrivano i loro prodotti spalmandoli in un panorama di piccole o piccolissime trattorie dall’arredamento caldo e rustico che richiamavano un certo focolare domestico, invece i locali dei grandi centri urbani erano più grandi e organizzati anche se le grosse brigate di cucina e di sala erano quasi sempre solo nelle grandi realtà alberghiere, mentre si stava diffondeva meglio di un virus una tipologia di ristorazione che cambierà un epoca: la pizzeria!

…e l’offerta gastronomica nazionale, com’era?

Era l’espressione della cultura di allora, che richiedeva ambienti informali e privi d’etichetta e si contrapponeva alla gloriosa opulenza della più blasonata gastronomia francese, con la varietà e la sostanza dell’articolata cucina regionale.

Non dimentichiamo che la ristorazione d’elite cominciò in Italia dopo il 1977, grazie ad uno dei primi emigranti della cucina, tale Gualtiero Marchesi, che fece il suo percorso formativo prima in Francia, specificatamente dai fratelli “Troisgros” di Roanne, tristellati dal 1968, allorché aprire il suo ristorante di via Bonvesin de la Riva a Milano.

Quello che ci mancava allora non era certo il modo di fare cucina, ma piuttosto il modo di confezionarla.

Mangiare in un ristorante negli anni 70-80’ era un po’ come comprare un paio di scarpe di “Prada” e portarsele via in un sacchetto di plastica.

Eppoi le stelle Michelin, che per molti anni furono rappresentate da pochi esempi nel nostro paese, nella sola Parigi, se ne contavano almeno 5 di locali tristellati, già dall’inizio degli anni 60.

Non che la celebre guida rossa debba essere considerata la depositaria della verità in senso assoluto, anche per le sue evidenti propensioni e preferenze casalinghe, ma comunque la sua critica rimane sempre la più accreditata e la sua benevolenza assicura un buon indotto per qualsiasi ristoratore.

In fondo non c’è niente di male se per un trentennio il panorama della ristorazione italiano è stato guidato da una tipologia di locale a conduzione familiare, con forti refusi casalinghi e imperniato, a ragione per l’epoca, sull’offerta di una cucina regionale e sulla semplicità del servizio.

Contestualmente, nei menu delle cucine dei più rinomati e lussuosi alberghi italiani, fino agli inizi degli anni ‘90, fiorivano i piatti della cucina classica internazionale, in altre parole, la cucina Francese codificata dai decani della grande cuisine d’hotel :“Escoffier” e “Pellaprat”.

Sempre in quegli anni, almeno per quanto riguarda la diffusione Nazionale, forse un po’ prima nei grandi centri urbani di Milano e Roma, la svolta: cominciarono ad arrivare le “correnti”, le mode e le tendenze, tutte probabilmente alimentate dall’incalzante moltiplicarsi e diffondersi di stampa e letteratura di settore.

Non di meno, capito il movimento, fu la televisione a dedicare nei suoi palinsesti sempre maggior spazio a ricette, dimostrazioni pratiche, fino ad arrivare a veri e propri reportage e dossier su locali, cantine e professionisti del fornello, che diventarono testimonial del buon vivere e ospiti fissi di trasmissioni culturali.

Ogni rivista patinata si arricchiva del suo angolo culinario e ogni quotidiano aveva la sua bella recensione sul locale più in voga o dedicato allo Chef del momento.

Così la professione più oscura e meno riconosciuta di sempre diventa, grazie ai Media, un mestiere chic e prestigioso ed in breve si passa dall’ombra, alla figura del cuoco-divo.

Archiviato così l’archetipo classico di ristorante e trattoria, dalle pastasciutte abbondanti e dal vino della casa, ecco svilupparsi i locali originali e di tendenza, con creatività in cucina e infinite carte dei vini provenienti da tutto il mondo…persino dalla California!

Ora le influenze dai vari paesi sono forti e sebbene la nostra tradizione gastronomica sia ben radicata, nasce un must: essere creativi.

Nascono le fazioni e ora i cuochi si dividono in “tradizionali” e “creativi”.

Le origini della cucina Italo-Americana: nasce una sub-cultura

 Torniamo 2 passi indietro…

Negli anni dell’immigrazione italiana verso gli Stati Uniti e più specificatamente dal dopo-guerra in avanti, un’invasione di piccoli ristoranti battenti bandiera tricolore, hanno aperto le loro porte trasmettendo agli americani un’immagine alterata, aggiustata e approssimativa del nostro modo di mangiare. Questi nostri connazionali che, in cerca di fortuna in un paese che prometteva sin dagli inizi del secolo facili opportunità, non erano nella stragrande maggioranza dei casi professionisti di questo mestiere ma persone intraprendenti e coraggiose che capirono la potenzialità delle nostre semplici specialità alimentari, una su tutte, Sua Maestà la “Pizza”che nasce senza dubbio a Napoli alla fine del 19° secolo.

Capito l’interesse degli americani verso le semplici ricette della nonna che, con tanto amore combinava pochi ingredienti creando piatti genuini, ecco come tutte le regioni, nella figura di nuovi e sempre più preparati imprenditori della ristorazione, contribuirono esportando le proprie specialità alimentari, varando una sub-cultura gastronomica italiana parallela ma condizionata e ridimensionata dalle differenze delle materie prime, dalla conoscenza approssimativa del mestiere e forse anche dalle aspettative poste dal punto di vista del cliente americano.

Fortunatamente dagli anni 80 in avanti, il nostro paese ha potuto dimostrare al mondo, grazie ad adeguate campagne promozionali promosse dai maggiori tour-operator di non avere solo come attrazione la più alta concentrazione di città d’arte e bellezze paesaggistiche del pianeta, ma anche di avere uno stile di vita invidiabile che ovviamente non può trascendere dalla cultura del buon mangiare e del buon bere.

È naturalmente il buon mangiare non può trascendere dalla materia prima e quindi dai nostri prodotti D.O.P. italiani. Purtroppo questa semplice equazione ha forse raggiunto i turisti Americani e stranieri più attenti, ma non è stata comunque sufficiente a sradicare l’immaginario collettivo americano che considerava la cucina italiana composta da: pizza, meat balls & spaghetti, tagliolini all’Alfredo….Oh my God!

Chi poi contribuisce in modo mediatico all’espansione in parte veritiera della cucina italiana, sono i network televisivi che sono pieni di format dedicati ad essa, tanto per citarne uno il “Molto Mario” di “Food network” ne rappresenta un chiaro esempio, il quale pur essendo bravo e a suo agio nel ruolo chef Star, sembra un po’ la grottesca imitazione di quello che l’utente medio si aspetta che sia un cuoco italiano, grosso, ordinario e materiale. È sicuramente una rappresentazione che piace e ha successo, ma non può sicuramente essere considerata attendibile e veritiera. Almeno non voglio crederci.

Ecco quindi il profilo del ristorante medio italo-americano… naturalmente generalizzare non è mai saggio e forse non è neppure giusto, ma c’è qualcuno che ha un minimo di conoscenza del mondo della ristorazione americana che leggendo queste righe si sentirà di smentirmi?

La cucina: Cibo mal cucinato con surrogati dei buoni prodotti tipici italiani, come nel caso del Parmesan cheese che non è neppure parente alla lontana del nostro “Parmigiano Reggiano”, di solito mal presentato, oppure contorni standard e sconditi per accompagnare le carni, sempre in porzioni sovradimensionate con aggiunte di salse assurde, condimenti irrazionali e improbabili dressing.

La Sala: quasi sempre molto accogliente, arredi curati da validi architetti, location strategiche, servizio sbrigativo e impersonale, cioè improntato sui numeri piuttosto che sul benessere del cliente.

La Politica aziendale: presentazione del conto prima della fine del pasto, trovate di marketing vincenti, come guest cards o sinergie con partner-ship per introdurre altri acquisti a minor costo, e concludo l’elenco, molti soldi a disposizione per pubblicità, è il caso di dirlo, in tutte le salse.

Questo purtroppo è il lato dell’America che mangia junk food, il rapporto di una massa incredibile di individui che consuma in modo forsennato, senza preoccuparsi della qualità dei propri consumi, ma questo è solo un lato di questo incredibile paese.

Ci sono moltissime persone, inserite nello stesso sistema, che hanno saputo difendersi e capire cosa succedeva e potendolo fare hanno visitato l’Europa e le principali capitali gastronomiche, ma soprattutto hanno saputo discernere il buono e il sano dal dozzinale e dal precotto.

Hanno assaggiato le specialità del vecchio continente e hanno constatato, soppesato, apprezzato e in ultima analisi hanno sposato lo stile di vita di chi sa mangiare e bere; di chi spende soprattutto tempo oltre che denaro nel scegliere, confrontare e preparare quello che gli entra nello stomaco.

Che ci sia anche questo tipo di persona negli Stai Uniti è fuor di dubbio altrimenti store come “Whole Food Market” o come “Dean & De Luca” per citarne solo un paio, non avrebbero ragione di esistere e invece, nonostante i prezzi, sono fiorenti più che mai.

Sono persone che pagherebbero follie per assaggiare una pasta fresca fatta a mano o degustare una fetta di prosciutto crudo con un bicchiere di Chianti Classico. Persone che vanno in visibilio alla vista di un petto di pollo scaloppato e accompagnato da freschi ortaggi spadellati, e lanciano gridolini di gioia per una darna di pesce appoggiata sopra una caponata di verdure e condita con un filo d’olio d’oliva.

Per accontentare questo piccolo moto d’appassionati che fra vini e formaggi, si stanno avvicinando al nostro modo di vivere e godere l’alimentazione e la tavola, stanno nascendo nuove tendenze e nuovi locali.

Queste persone, comprano a volontà, non solo i soliti vini italiani (qui purtroppo e per forza arrivano i più commerciali) o francesi, soprattutto consumato i loro californiani e i numerosi sud-americani presenti sul mercato con un rapporto qualità/prezzo certamente migliore rispetto ai vini d’importazione più pregiati.

Non posso non citare i stupendi Zinfandel e Merlot o gli autorevoli e fruttati Chardonnay o Sauvignon Blanc o i possenti barricati da uve Cabernet Sauvignon.

Mentre dalla Napa Valley madre del mitico Opus One arrivano dei notevoli Pinot Neri come quello della Hart Ford o della Handley. Sono già parecchie le etichette Californiane che girano nella winery di tutto il paese e ora che hanno le conoscenze, ottenute attraverso i migliori enologi europei, non gli resta che sfruttare le enormi potenzialità del clima e del terreno ancora vergine della vasta California rurale, e non ci vorrà molto prima di avere un agguerrito quanto affamato concorrente in casa.

Presto questo divario si colmerà, non solo nel mondo del vino ma credo anche in quello della ristorazione, chiaramente questo varrà ancora solo per pochi rispetto ai 280 milioni d’americani che popolano questo vasto continente, ma in un paese libero e aperto come questo non ci sarà nessun’ostruzione a qualsiasi tendenza che porterà benessere, cultura e buongusto.

anno 2000

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